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Periodico della Parrocchia San
Filippo Neri (Anno Pastorale 2019-2020)
Colpo d'ala
Rubrica senza vincolo di periodicità. Funzionerà ogni
volta che avremo qualche cosa di utile da dire
Proviamo a riflettere. E per farlo
ci incontreremo virtualmente qui per cercare di cogliere il senso di una breve
provocazione.
Una data, un fatto, una persona, un luogo..... possono suggerirci un pensiero al quale far seguire un proposito e un comportamento.
ARCHIVIO ANNO
PASTORALE 2019-2020
GIU’ IL CAPPELLO di GP. M. – 30 maggio 2020 |
Molto, moltissimo, è stato detto e scritto sul ruolo giocato
dalle donne in questi giorni di pandemia: come scienziate all’interno dei
laboratori di ricerca; come divulgatrici di informazioni scientifiche; come
medici e infermiere dentro e fuori dagli ospedali; come mamme chiamate a
“dirigere il traffico” nelle aree –spesso anguste- delle loro abitazioni;
come lavoratrici impegnate a svolgere da remoto il proprio lavoro professionale; come
psicoterapeute dedite a riequilibrare le frustrazioni dei mariti maldestri
che circolano per casa e combinano più danni che cose buone… Sono state queste considerazioni a richiamarmi alla memoria la
figura di una donna, morta da alcuni anni perché il suo fisico, ancora
giovane, non ha resistito all’usura di una vita che l’aveva costretta a
subire il peso dell’abbandono, della violenza, della prostituzione, della
droga, del carcere. Ho conosciuto personalmente Maria nel 1988, dopo averne letto in
sovrimpressione sul teleschermo una pagina di diario, riportata da Sergio
Zavoli a conclusione della bellissima
trasmissione “Viaggio intorno all’uomo”. All’epoca Maria viveva in una comunità terapeutica e sperimentava
il significato della solidarietà ricevuta e poi donata come impegno civile
–donna vittoriosa- in un centro di recupero per malati di AIDS. Ecco la pagina di diario che ebbi l’occasione di leggere e che fu
all’origine di un’amicizia:: Per la
delusione che ha accompagnato la mia venuta al mondo – Per la
violenza che ha distrutto la mia natura bambina – Per il
recupero che tentate, per la vita che mi rubate – Per l’amore
che ho dato, per tutto quello cui ho rinunciato – Per le paure,
per le battaglie combattute da sola – Per le
grettezze, lo scherno, le persecuzioni – Per i ghetti,
le carceri, i letti di contenzione – Per la
prostituzione cui mi avete guidata – Per
l’alienazione in cui mi avete gettata – Per tutto
questo e altro ancora: giù il
cappello, signori, giù signori dinanzi ad
una donna! Le donne eroine di Milo Manara |
LE PAROLE SONO PIUME di G:Paolo Manganozzi
– 25 aprile 2020 |
“ …Così, in nome di una necessaria misura di difesa
collettiva dal contagio, i morti e i loro cari sono costretti a rinunciare al
conforto di quei gesti ultimi che la Pietà umana e la Liturgia hanno
elaborato nei secoli”. Concludevo così, qualche giorno fa, una mia riflessone sugli
effetti del coronavirus, riferiti ai possibili pensieri ultimi di chi
intravede la propria fine nella più tristi delle solitudini, alla memoria dei
morti e al sentimento del dolore di quanti li amavano. Memoria e dolore
difficili da assorbire. Ho pensato allora al libro, “La
morte amica”, nel quale Marie de Hennezel
racconta la sua esperienza di medico impegnato nel seguire i passi estremi
dei malati terminali, parlando loro della morte con la levità delle piume,
senza camuffare la verità e senza truccare il mistero e il solco del dolore.
Al punto che la presa di coscienza
aiuta gli stessi malati a uscire dagli incubi, dal pensiero ossessivo
e assegna loro il ruolo di protagonisti che possono riuscire a comandare i tempi e le modalità dell’ultimo tratto di
cammino. Ma l’impegno di Marie de Hennezel non
si ferma qui: a quanti, medici e volontari, l’aiutano nell’incontro con i
malati terminali pone l’obiettivo ulteriore di inventare un “rituale del
lutto”, nell’intento di tendere la mano a “coloro che sono ancora vivi e
combattono”. Agli uni e agli altri credo possano essere rivolte le parole che
il presidente francese Francois Mitterand ha scritto nella prefazione al libro
di Marie, quale atto di gratitudine
per colei che lo aveva assistito: “Mai forse il
rapporto con la morte è stato povero come in questi tempi di aridità
spirituale in cui gli uomini, nella fretta di esistere, sembrano
eluderne il mistero, ignari di
prosciugare così una fonte essenziale del gusto di vivere. …La morte può far si che un essere diventi ciò che
era chiamato a divenire; può essere, nella piena accezione del termine, un
compimento. E poi, non c’è forse nell’uomo una parte di eternità che la morte
mette al mondo, fa nascere altrove?” . VENTICINQUE
D’APRILE DER QUARANTACINQUE Er senso vero
de “libberazzione” lo vo’ sape’ er monello de la scuola pe’ capi’ si davero ‘sta parola annisconne dolore e distruzzione. La maestra risuscita Stazzema e li Fratelli
Cervi e l’Ardeatine … er carvario de cristi co’ le spine che solo a ricordalli er core trema. Parla de pora ggente e de li forti spariti da la
vista anche a se stessi: pe’ campa’ je toccava
d’esse morti … … però pe’ via de la libberazzione sortirono dar
buio de l’oppressi e fu la Pasqua
de risurrezione. G:Paolo Manganozzi In ricordo di quanti a lungo dovettero vivere nascosti per
sfuggire alla morte o alla deportazione.. |
“HO UN SOGNO” di GP. M. – 18 aprile 2020 |
Lo scorso 4 aprile il calendario ha segnato il 52.mo anno dalla
morte di Martin Luther
King, il pastore protestante grande protagonista tra le voci e le azioni
contro la segregazione razziale dei negri. Quel giorno del 1968 M. L. King , a Memphis, aveva pronunciato un
discorso che è rimasto nella storia; lo proponiamo nella sua parte
conclusiva, che precedette di pochi minuti le detonazioni dei colpi di
pistola che l‘uccisero. “Oggi, amici
miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di
domani, io continuo ad avere un sogno. E’ un sogno
che ha radici profonde nel sogno americano. Ho un sogno,
che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo
credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini
sono creati uguali. Ho un sogno,
che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i
figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della
fraternità. Ho un sogno,
che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo
afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in
un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno,
che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non
saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro
personalità. Oggi ho un
sogno. Ho un sogno,
che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai
accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso
interlocutorio e di nullification delle leggi
federali, un giorno, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine
nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come
fratelli e sorelle. Oggi ho un
sogno. Ho un sogno,
che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno
abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi
diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le
creature la vedranno insieme. Questa é la
nostra speranza. Questa é la
fede che porterò con me tornando nel Sud. Con questa
fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa
fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una
bellissima sinfonia di fraternità. Con questa
fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in
prigione insieme, schierarci insieme per la libertà, sapendo che un giorno
saremo liberi. Quel giorno
verrà, quel giorno verrà quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un
significato nuovo: "Patria mia, é di te, dolce terra di libertà, é di te
che io canto. Terra dove
sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta
riecheggi libertà". E se
l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero. E dunque, che
la libertà riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire. Che la
libertà riecheggi dalle possenti montagne di New York. Che la
libertà riecheggi dagli elevati Allegheny della
Pennsylvania. Che la
libertà riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado. Che la
libertà riecheggi dai pendii sinuosi della California. Ma non
soltanto. Che la
libertà riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia. Che la libertà
riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee. Che la
libertà riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da
ogni vetta, che riecheggi la libertà. E quando
questo avverrà, quando faremo riecheggiare la libertà, quando la lasceremo
riecheggiare da ogni villaggio e da ogni paese, da ogni stato e da ogni
città, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio,
neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi
per mano e cantare le parole dell’antico inno: "Liberi finalmente,
liberi finalmente. Grazie a Dio
Onnipotente, siamo liberi finalmente". RICORDO DI MARTIN LUTHER KING L’America ha ‘nventato er King ‘s day pe’ sentisse
tranquilla la coscenza; co’ bbona pace de la nonviolenza chiede de nun scassà
li zebbedei. Da quanno che de tutti li colori ce combinò, all’inizzio, er Padreterno è nato ‘n gran casino de l’inferno e l’omo ariva
puro a fasse fori. Così, mentre che er nero appare bello si preso ar quarzo o sotto ar solleone visto in natura provoca ‘n macello; senza pensa’ che a ‘n trucco se riduce e che pe’ toje
ar bianco l’illusione abbasta de guardallo controluce. G.Paolo Manganozzi |
UOMINI COME MOTORI di G.Paolo
Manganozzi – 13 aprile 2020 |
Quella fotografia è terribile. Penso vada inserita nella galleria
di immagini di oscura bellezza generate dall’attuale pandemia e mi fa temere
che qualcuno possa averla maldestramente accolta come esempio di tempestività
ed efficienza in un momento in cui il coronavirus pone il problema della
carenza di spazi. Necessitano spazi, è vero; ma che siano punti di
accoglienza e non depositi a cielo
aperto, lontani perfino dalle tende-ricovero del lazzaretto di memoria
manzoniana. A Las Vegas, i rettangoli
ben delimitati del parcheggio del Cashman Center
sono stati assegnati ai senzatetto in nome dell’urgenza di attuare il
“distanziamento sociale” anticontagio Un “regalo” dello Stato del Nevada che
consente ai locali benpensanti di
lavarsi la coscienza e le mani senza
uso di amuchina. E’ l’effetto della “evoluzione” del virus che può mettere in sonno il
sentimento della solidarietà e del rispetto che si deve a ogni uomo,
sentimento che invece trova in questi giorni splendidi esempi di
partecipazione al rischio e al dolore dei malati. Qualcuno potrebbe pensare (o ha di fatto pensato) che per i
senzatetto è abitudine dormire a cielo
aperto e che a Las Vegas -ironia truce- in questo modo si può avere
addirittura il conforto di sentire
come proprio lo spazio forse già occupato da una “Ferrari 288 GTO”. A quel qualcuno, e più ancora agli amministratori di Las Vegas,
verosimilmente ricca di parcheggi sotterranei, mi permetto suggerire di
volere approfondire la conoscenza della vita dell’Abbé
Pierre, -il piccolo prete francese con gli spazi dell’anima interamente
invasi dalla presenza dei poveri e di Dio- che nella notte di un inverno di
gelo riuscì a far mantenere aperti ai senzatetto i locali della metropolitana
di Parigi. |
MIGRANTI AL TEMPO DEL
CORONAVIRUS di G.Paolo Manganozzi – 23 marzo 2020 |
Ogni giorno, alle sei pomeridiane, ”l’Italia sospesa” esce per un
po’ dal suo acquario e diventa “l’Italia della trepidazione”: Il Capo
Dipartimento della Protezione civile, dott. Angelo Borrelli, comunica la
sintesi in cifre della lotta al pandemia del “coronavirus”; le punte di
visione e di ascolto radio-TV toccano a quell’ora vertici crescenti, nella
speranza di almeno qualche minima contrazione
dell’andamento della pandemia. E’ un momento di trattenuta del respiro che solo oggi - lunedi 23 marzo
2020 - intravede qualche filo di
speranza in noi reclusi nelle nostre case, speranza da custodire con gelosa
attenzione lungo l’arco delle ventiquattro ore successive: è troppo forte il
bisogno di pensare possibili un
presente di sopravvivenza e un futuro di vittoria . Qualcosa però non può
essere represso dalla ricerca di
reagire e sorridere. Questo male, il cui nome “covid-19” evoca ironicamente
odore di sciroppo o energia di vitamine, obbliga infatti, per evitare contagi
dilaganti, a un isolamento assoluto che non
consente fino ad oggi di
scorgere un limite di tempo. Il pensiero più triste va allora
ai malati gravi e ai morti costretti a “emigrare”. Senza intaccare l’ammirazione per l’impegno e la capacità di
donazione (sempre più spesso si parla
di eroismo) di medici, infermieri e ogni altra persona coinvolta in questa
improvvisa battaglia, è fuori da ogni immaginazione l’angoscia legata alla
solitudine, all’interno di un box, di chi intravede la morte e invece che al caldo di una carezza deve
aggrapparsi al ricordo di una voce lontana offuscata dal ronzio delle
macchine che aiutano una respirazione sempre più difficile e dolorosa.. Forse in loro e in chi li ama ma non può avvicinarsi o almeno
concedersi un breve sguardo velato, diventa ribelle anche il pensiero di
dover accettare l’idea che
l’allontanamento e il distacco dipendono da un atto di amore e non di
abbandono. Ed è difficile agli uni e agli altri far posto in quei
momenti al messaggio evangelico che
per ogni battezzato c’è la possibilità di essere estratto dal buio del dolore
e della morte. Come per il cieco della
piscina di Siloe. Non meno crudele è la realtà della migrazione delle bare da un
comune all’altro, da una regione all’altra in cerca di “approdo”
ed di “accoglienza”; in alcuni casi infatti la frequenza delle morti
supera la capacità ricettiva dei cimiteri o dei crematori. Così, in nome di una necessaria misura di difesa collettiva dal
contagio, i morti e i loro cari sono costretti a rinunciare al conforto di
quei gesti ultimi che la Pietà umana e la Liturgia hanno elaborato nei secoli. . . . Riusciranno gli arcobaleni disegnati dai bambini ed esposti alle
finestre e ai balconi a farci pensare che davvero ”ce la faremo” ad uscire
dall’incubo del colonnavirus? Tra le tante risposte
possibili e spesso coesistenti possiamo forse includere quella suggerita dal
Salmo 45: “Dio è per
noi rifugio e fortezza, aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce. Perciò
non temiamo se trema la terra, se vacillano i monti nel fondo del mare.” |
TONO MINORE (purtroppo) di GP. M. – 07 marzo 2020 |
8 marzo 2020,
domenica. Quest’anno la nostra prima attenzione è catturata dalle
evidenze presenti e prospettiche del
coronavirus. E non può non essere così di fronte all’aggressione di questa
epidemia di dimensione mondiale che
estrae dalle pagine dei romanzi ( ….”I promessi sposi” ) e dall’archivio
della storia i disastri di eventi più o meno lontani: davvero incredibile la
forza del passaggio dalla descrizione al tatto della realtà. Prima attenzione, dicevo. In situazioni diverse ci sarebbe stato
un più giusto spazio riservato alle donne e alla loro festa. Personalmente
–forse desiderando ridurre il tasso di
questa sottrazione- ho pensato di tornare in punta di piedi alla mattina
dello scorso Capodanno e all’omelia di Papa Francesco; omelia che celebrando
“Maria Santissima Madre di Dio” ne ha collocato la maternità all’origine
della rinascita umana. Mi è sembrato allora che all’omaggio delle mimose possa essere
abbinato lo spessore nobile di alcune
frasi che, senza inutili commenti, estraggo dal testo del messaggio
del Pontefice. “Dio e
l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù
vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra
carne umana”. … “Dal corpo di
una donna è arrivata la salvezza per l’umanità; da come trattiamo il corpo
della dona comprendiamo il nostro livello di umanità”. … “Oggi pure la
maternità viene umiliata perché
l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri che
rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del
grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone
che hanno la pancia piena di cose, e
il cuore vuoto di amore”. … “Se vogliamo
un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra ci stia a
cuore la dignità di ogni donna. La donna è donatrice e mediatrice di pace e
va pienamente associata ai processi decisionali, Perciò, una conquista per la
donna è una conquista per l’umanità intera”. E’ difficile immaginare una esaltazione più alta della donna in
un contesto di tempo e di spazi in cui il corpo femminile spesso “viene sacrificato sugli altari profani
della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie
da usare” laddove, invece,
andrebbe “rispettato e onorato”. LE MAMME COR
PANCIONE Pe’ vede’ quanto bello er
monno sia hai da sosta’
de dentro a ‘no spedale dove le mamme
prossime ar finale aspetteno de fa’ l’ecografia. S’appoggeno sur grembo co’ le mani lievi come i
cristalli de la neve; la loro
attesa ormai ridotta a breve esprime la
bellezza der domani. Che sia
maschietto oppuro ciumachella lì dentro, ar buio, è chiusa la speranza che tra li
guai te fa la vita bella. Respiri ‘ntorno l’aria der Natale, ce so’ sorisi e gioia che t’avanza: come fai a
dubita’ su quer che vale? G.Paolo Manganozzi |
SANREMO E PADOVA “2020” di
GP. M. – 09 febbraio 2020 |
Ho visto in parte il Festival di Sanremo appena concluso,
dedicando – fin dove mi riusciva a decifrare le parole – particolare interesse al testo delle
canzoni. Mi è accaduto anche nelle edizioni degli scorsi anni, accorgendomi che il carisma di autori
e cantanti di molti brani riesce a cogliere e protrarre nel tempo
l’attenzione ad alcuni temi del nostro costume. Temi importanti che più che
affidarsi a facili rime aggrediscono alcuni comportamenti della nostra vita
collettiva. Ho seguito venerdì scorso
la cerimonia che ha aperto la celebrazione di Padova a capitale europea del
volontariato per l’anno 2020. La presenza e l’intervento del Presidente della
Repubblica hanno accentuato il tono e l’incisività della tensione personale
che i volontari impegnano nel “cercare insieme quanto è possibile e non è
ancora stato inventato per umanizzare la società in cui viviamo”. E’ in quel momento che -
abbandonato lo schermo di paillettes sfolgoranti, di chiffon e di fuori
programma più o meno inventati – ho scoperto il possibile punto di contatto
tra due fenomeni tanto diversi e potenzialmente incisivi. Me ne ha offerto l’occasione questo testo di Simone Cristicchi, riproposto l’altra sera a Sanremo per
rievocare una serie di passati successi. E’ il testo che Cristicchi ha dedicato alla piaga della malattia
mentale, con la quale i volontari più
impegnati spesso si cimentano. Ti regalerò
una rosa Una rosa
rossa per dipingere ogni cosa Una rosa per
ogni tua lacrima da consolare E una rosa
per poterti amare Ti regalerò
una rosa Una rosa
bianca come fossi la mia sposa Una rosa
bianca che ti serva per dimenticare Ogni piccolo
dolore Mi chiamo
Antonio e sono matto Sono nato nel
'54 e vivo qui da quando ero bambino Credevo di
parlare col demonio Così mi hanno
chiuso quarant'anni dentro a un manicomio Ti scrivo
questa lettera perché non so parlare Perdona la
calligrafia da prima elementare E mi stupisco
se provo ancora un'emozione Ma la colpa è
della mano che non smette di tremare Io sono come
un pianoforte con un tasto rotto L'accordo
dissonante di un'orchestra di ubriachi E giorno e
notte si assomigliano Nella poca
luce che trafigge i vetri opachi Me la faccio
ancora sotto perché ho paura Per la
società dei sani siamo sempre stati spazzatura Puzza di
piscio e segatura Questa è
malattia mentale e non esiste cura Ti regalerò
una rosa Una rosa
rossa per dipingere ogni cosa Una rosa per
ogni tua lacrima da consolare E una rosa
per poterti amare Ti regalerò
una rosa Una rosa
bianca come fossi la mia sposa Una rosa
bianca che ti serva per dimenticare Ogni piccolo
dolore I matti sono
punti di domanda senza frase Migliaia di
astronavi che non tornano alla base Sono dei
pupazzi stesi ad asciugare al sole I matti sono
apostoli di un Dio che non li vuole Mi fabbrico
la neve col polistirolo La mia
patologia è che son rimasto solo Ora prendete
un telescopio... misurate le distanze E guardate
tra me e voi... chi è più pericoloso? Dentro ai
padiglioni ci amavamo di nascosto Ritagliando
un angolo che fosse solo il nostro Ricordo i
pochi istanti in cui ci sentivamo vivi Non come le
cartelle cliniche stipate negli archivi Dei miei
ricordi sarai l'ultimo a sfumare Eri come un
angelo legato ad un termosifone Nonostante
tutto io ti aspetto ancora E se chiudo
gli occhi sento la tua mano che mi sfiora Ti regalerò
una rosa Una rosa
rossa per dipingere ogni cosa Una rosa per
ogni tua lacrima da consolare E una rosa
per poterti amare Ti regalerò
una rosa Una rosa
bianca come fossi la mia sposa Una rosa
bianca che ti serva per dimenticare Ogni piccolo
dolore Mi chiamo
Antonio e sto sul tetto Cara
Margherita son vent'anni che ti aspetto I matti siamo
noi quando nessuno ci capisce Quando pure
il tuo migliore amico ti tradisce Ti lascio
questa lettera, adesso devo andare Perdona la
calligrafia da prima elementare E ti stupisci
che io provi ancora un'emozione? Sorprenditi
di nuovo perché Antonio sa volare |
UNA MATTINA CON SAMI di GP. M. – 25 gennaio 2020 |
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“Tu ce la
devi fare Sami, tieni duro. Adesso girati e vai,
vatti a riposare perché domani ti aspetta una giornata di lavoro pesante”. Il
giorno dopo sono andato nella baracca numero 15 e papà non c’era più.
Nell’arco di 30/40 giorni dal nostro arrivo alla rampa della morte sono
rimasto SOLO, solo a combattere contro quello che offriva Auschwitz. Uno dei discorsi che più mi sono rimasti fissi nella mente.
Come può un ragazzino di tredici anni concepire delle parole così dure e allo
stesso tempo così piene di dolore? Come può un ragazzino di tredici anni
vedere il padre abbandonarsi tra le braccia della morte? Come può un
ragazzino di tredici anni accettare tutto ciò? Ma a chi importava lì, ad
Auschwitz? Lottare per sopravvivere era l’unico pensiero di ogni persona e
talvolta non era neanche più quello, ma si tramutava in come metter fine il
prima possibile a tutta quella sofferenza. Come ha ripetuto Sami, ciò che è
successo non si può annullare, non esiste una spugna magica che può
cancellare dalla mente ogni singolo istante vissuto in quel luogo. E come per lui, quello che Sami ci
ha raccontato non si può cancellare neanche nella nostra testa, non si può. Mi ritengo fortunata per aver avuto l’occasione di questo
incontro, perché è tutta un’altra cosa. Leggerne, vedere Sami
nelle interviste, non è come sentirlo parlare dal vivo. Sentire la sua voce
tremolante, i sospiri, le espressioni, i gesti, è qualcosa di unico e raccontarlo non sarà mai la stessa cosa.
Vedere le sue lacrime mentre parla della sorella anche dopo settantasei anni
mette i brividi. Più volte Sami ha parlato
dell’importanza dello studio e della cultura; nel mondo di oggi, come
nell’arco di tutta la storia, studiare serve ad evadere dal carcere.
L’ignoranza è un grande e buio carcere. La storia insegna, ci dicono; … ma a quanto pare tutto questo
massacro non ha insegnato proprio nulla. Io mi chiedo -ed è qualcosa che non riesco proprio a
comprendere, perché forse va al di là delle mie capacità- come può un uomo,
dotato di ragione, compiere uno scempio del genere. Come può un uomo arrivare
a fare simili cose con una freddezza sconcertante, senza neanche un minimo di
titubanza. È un qualcosa che non potrò mai spiegarmi. È così assurdo. Aver avuto la possibilità di questo incontro mi ha aperto
ancora di più gli occhi su qualcosa che fino ad ora sì, avevo capito, ma per
me rimaneva lontano, sui libri.
Sentire tali parole mi ha fatto avvicinare e comprendere ancor da più
vicino ciò che è accaduto. “Posso io
scordarmi dell’ abbraccio di mia sorella quando vede la mia fetta di pane? Di
sicuro aveva le lacrime agli occhi, di sicuro le aveva, non le vedevo. Come
le avevo io le lacrime di gioia perché le avevo offerto qualche cosa. Ero
felice, in quel momento ero felice. Avevo fatto un gesto di amore verso mia
sorella. E subito dopo mi rimanda
indietro il panno dove c’è ancora la mia fetta di pane e la sua fetta di
pane.” Sono parole che non puoi dimenticare. Sono parole che ti fanno
capire il vero valore fraterno. Episodi del genere non puoi dimenticarli.
Purtroppo sono questi momenti che mi fanno aprire gli occhi, facendomi
rendere conto di quanto sia fortunata ad avere due sorelle accanto a me… le quali sono certa che in una situazione simile
avrebbero fatto lo stesso. Mi sarebbe piaciuto andare
vicino ma Sami e porgli una domanda, ma sono
prevalsi il mio timore di parlare davanti a tutti, la paura di sbagliare ...
Ho perso un’occasione che non si ripeterà mai più, me ne rendo conto, eppure
anche solo una stretta di mano mi avrebbe potuto dare una spinta in più. “… Perché
proprio io? Perché di tutte quelle persone proprio io sono rimasto vivo?” E’ la domanda
che Sami si è posto molte volte, ma credo che
chiunque se la sarebbe posta . E una risposta, insieme a Pietro, l’hanno
trovata: finché Dio avesse dato loro la forza avrebbero dovuto parlare a
tutti. Parlare per far conoscere e far aprire gli occhi alle menti più
ottuse. Parlare per evitare che atti del genere non si ripetessero in futuro.
Parlare per far rendere conto alla generazioni successive, e in
particolare a noi più giovani, a
quanta disumanità l’uomo può arrivare e evitare che riaccada. B7456 è molto di più che un numero.
G.U. *** Samuel Modiano – Sami
– è un italiano nato in Grecia, sopravvissuto all’inferno di Auschwitz-Birkenau.
Ha 90 anni e supera la fatica e il dolore di ogni rievocazione nel
tentativo di raccontare e trasmettere, i segni degli orrori vissuti nel
lager. Ogni anno, il 27 gennaio,
è la “giornata mondiale della memoria”; affidiamo ai pensieri e alle parole di una giovane la rappresentazione di un abominio compiuto
dall’uomo e che sarebbe colpevole dimenticare. Sono pensieri e parole che le
hanno suggerito il cuore e la mente dopo l’incontro di Sami
con gli studenti della Scuola “Vittorio Gassman” di Roma. |
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ICARO di
GP. M. – 18 gennaio 2020 |
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Quattro anni fa, a Natale, avevo aggiunto alle mie povere
preghiere questa implorazione: “Padre
nostro, fa’ che la culla delle onde di risacca, stordita per aver custodito
il sonno gelido di Aylan –tre anni- non accolga più
bambini per respingerli con dolce falso dondolio verso le spiagge dalle quali
essi vogliono fuggire. Fuggire per nascondersi alle traiettorie dei
proiettili, ai crampi della fame, alla mancanza di medicine, all’assenza di
almeno un simulacro di scuola”. Aylan, bambino
siriano di etnia kurda, era morto durante il
tentativo disperato del padre di immigrare con la sua famiglia in Grecia. Gennaio 2020: Laurent, ragazzo
quattordicenne ivoriano, viene ritrovato, a Parigi, raggomitolato nel
carrello di un jet. Laurent aveva imitato Icaro,
nel volo e nella tragedia, per cercare di emigrare dalla Costa D’Avorio:
asfissia e assideramento (-50°) a diecimila metri di quota. Il colpo emotivo generato dal piccolo corpo di Aylan riverso sull’arenile è ormai lontano dalle nostre
menti distratte e molti circuiti mediatici hanno riservato a Laurent il gelido appellativo di “clandestino”. Questa volta alla preghiera non ho potuto non abbinare una
considerazione che desidererei veder replicata nei pensieri di altre persone.
(E’ immodestia?). Di recente ho letto alcuni risultati di uno studio IPSOS –non
dissimili nella sostanza da quelli pubblicati dall’ISTAT- i quali ci hanno
detto che gli stranieri sono il 9% dei residenti nel nostro Paese; la
maggioranza degli italiani, invece, pensa erroneamente che l’”invasione” estera
tocchi il 31%. Tale valutazione in
eccesso, risulta abbastanza diffusa pure a livello a livello europeo, particolarmente tra gli
Stati che coltivano in assoluto l’idea della loro sovranità, accantonando i
principi –morali ma anche di pura convenienza- della cooperazione. Di
difficile comprensione risulta pertanto la loro contrastante idea di non collocare il problema
dell’immigrazione in testa alle urgenze da prendere in considerazione. Parere non dissimile esprime
il 50% degli intervistati italiani, i quali mettono la disoccupazione
in testa alle priorità da affrontare, seguita dalla situazione economica (38%); il nodo da
sciogliere dell’immigrazione raccoglie il 28% dei consensi. In sostanza, la concretezza dei numeri suggerisce che
l’immigrazione non è in Europa –Italia compresa- l’emergenza che viene
conclamata affidandone la dimensione a percezioni collegabili alla diffusione
di dati impropri, soprattutto da parte di alcuni “social”. Dati che giocano
sulla colpevole disinformazione delle
persone, sulla forza della propaganda
e sull’abilità di confondere in un
unico totale i doveri dell’accoglienza e i problemi –veri e grandi- dell’ integrazione. Padre nostro,
fa’ che l’uomo ritrovi il senso dell’umanità. |
PENSIERI SENZA TEMPO di GP. M. – 04 gennaio 2020 |
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Passa
tranquillamente tra il rumore e la fretta, e ricorda
quanta pace può esserci nel silenzio. Finché è
possibile senza doverti abbassare, sii in buoni
rapporti con tutte le persone. Di’ la verità
con calma e chiarezza; e ascolta gli altri, anche i
noiosi e gli ignoranti, anche loro hanno una storia da
raccontare. Gioisci dei
tuoi risultati così come dei tuoi progetti. Conserva
l’interesse per il tuo lavoro, per quanto umile: è ciò che realmente
possiedi per cambiare le sorti del tempo. Soprattutto
non fingere negli affetti, e neppure sii cinico riguardo
all’amore; poiché a
dispetto di tutte le aridità e disillusioni esso è
perenne come l’erba. Accetta benevolmente
gli ammaestramenti che derivano dall’età, lasciando con
un sorriso sereno le cose della giovinezza. Molte
paure nascono dalla stanchezza e dalla
solitudine. Al di là di
una disciplina morale, sii tranquillo con te stesso. Tu sei un
figlio dell’universo, non meno degli alberi e delle stelle; tu hai il
diritto di essere qui. Perciò sii in
pace con Dio, comunque tu lo concepisca, e quali che
siano le tue lotte e le tue aspirazioni conserva la
pace con la tua anima pur nella rumorosa confusione
della vita. Con tutti i
suoi inganni, i lavori ingrati e i sogni infranti, il mondo è
ancora stupendo. Fai
attenzione. Cerca di
essere felice. ***** A causa di un banale equivoco, l’onore di aver composto questa
“Desiderata di Baltimora” fu reso a un inesistente autore di fine 1600. Per amore di verità, va detto che questa preghiera va invece
attribuita a Max Ehrmann, cittadino dell’Indiana,
al quale la morte (1945) impedì di conoscerne il grande successo. Successo
sopravvenuto negli anni settanta, dopo che il Parroco della Chiesa Episcopale
St. Paul di Baltimora (di qui la derivazione del titolo) l’inserì in una
raccolta di preghiere. L’invito a essere in pace con Dio e con la propria anima e l’esaltazione della bellezza del mondo,
pur in presenza dei suoi inganni, ha colpito milioni di uomini di ogni Paese. |
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NON SAPPIAMO RICONOSCERLO di
GP. M. – 21 dicembre 2019 |
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Alcuni
poveracci sono andati dall’Eremita per averne lume e consiglio. Egli passa la
sua giornata tra la coltivazione dell’orto e la lettura e non gli piace
perdere tempo in chiacchiere; però talvolta cede alla compassione per
l’ignoranza della povera gente. “Ah, vi
meravigliate che Egli si sia mostrato come uno straccione?” dice
l’Eremita. “E che v’aspettavate, che
si presentasse come un banchiere con il cilindro e i guanti gialli?”. “Credi” gli
chiede uno dei cafoni “ch’Egli si trovi ancora dalle nostre parti?”. “Egli è in
ogni uomo che soffre; Lui stesso ce l’ha spiegato. Egli è in ogni povero”. “Io sono
povero, eppure in me Lui non c’è”. “Tu sei
povero, ma non vorresti essere
ricco?”. “Ah certo,
magari”. “Vedi, sei un
falso povero”. “Se vive tra
noi, perché non lo vediamo?” gli domanda
un altro. “Perché noi
non sappiamo riconoscerlo”. “Ah!
Spiegami, dove potrei trovarlo?” gli
chiede un vecchio stagnino. “Tu sai come io sia mal ridotto, e avrei tanto
bisogno di una grazia”. “Se hai
bisogno urgente di denaro, devi
chiederlo al diavolo, non a Gesù” gli spiega l’Eremita. “Sarebbe inutile,
sarebbe fiato sprecato implorarlo da Lui. Egli è povero, veramente povero, e
non solo per modo di dire. Egli è povero, ancor più povero di me e di te “. Quei
derelitti rimangono costernati. “Di dei, forse, non ce n’è uno solo, e ogni
razza, si racconta, ha il suo; ma, porca miseria, proprio a noi disgraziati
doveva toccare un Dio simile?”. da: Ignazio Silone, “Il seme sotto la neve” –
Mondadori 1976 Forse le parole del brano appena letto possono aiutarci a
verificare l’autenticità della nostra ricerca
di “Cristo Signore che è e che era e che viene”. Buono e santo Natale.
GP.M. |
L’INCONTRO di GP. M. – 14 dicembre 2019 |
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Le ”letture” dell’Avvento –e da lunedì più ancora quelle della
Novena di Natale- segnano il tempo del cambiamento imminente. Ai testi biblici su un Dio guerriero e giustiziere si vanno
sostituendo quelli che parlano di un Gesù atteso con dolce trepidazione,
portatore di pace-gioia-giustizia. E’ il clima sereno di un incontro che per essere possibile esige
anche il nostro personale andare. “… Egli viene
a salvarvi. Allora si
riapriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto,
perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. Ci sarà una
strada appianata e la chiameranno “Via santa”; nessun impuro la percorrerà e
gli stolti non vi si aggireranno. Non ci sarà più il leone, nessuna bestia
feroce la percorrerà, vi cammineranno i redenti” (Isaia 35, 3-6, 8-9). |
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L’ALGORITMO di
GP. M. – 30 novembre 2019 |
Ho avuto l’occasione di ascoltare il testo di quattro citazioni
proposte in un suo intervento –non so in quale contesto- dal prof. Franco Nembrini, del quale mi avevano già catturato i bellissimi
commenti alla Divina Commedia trasmessi da TV 2000. Quattro citazioni, ho detto. Eccole: "La nostra gioventù
ama il lusso, è maleducata, "Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, "Questa gioventù è marcia nel
profondo del cuore. Incisione su
un vaso di argilla dell’antica
Babilonia ( Ho ascoltato e ho immediatamente pensato alla loro attualità, al
loro “fermo immagine” che le decine di secoli non hanno minimamente sbiadito. Praticamente ognuno di noi ripete gli stessi giudizi -con minore
eleganza verbale e soprattutto con autorevolezza non confrontabile- e ne fa
oggetto di quotidiane “lamentazioni” al bar,
nei vagoni della metropolitana, nei più comuni luoghi di incontro o
anche intorno al tavolo della cena. Li ripetiamo con tono di sentenza ma intanto non proviamo a dare
il nostro contributo per migliorare la situazione; almeno di un po’. Tanto,
diciamo, questo è il verso del mondo. Ovviamente quanto appena espresso va inteso in senso generale,
prescindendo cioè dai tanti casi di comportamenti diversi, più virtuosi. … E se invece che di vuoto e diffuso menefreghismo si trattasse
(dubbio maligno) di un “gioco” pensato da qualcuno per farne oggetto di
un’operazione di potere, di cattura del consenso? La disponibilità dei moderni mezzi di comunicazione (web
soprattutto), l’uso di false notizie o comunque di linguaggi accuratamente studiati possono
far apparire come un dono l’invito al disimpegno, alla rarefazione del senso
del dovere. “Non ti preoccupare.” sembrano dire “Penso io per te; anzi dammi
una delega in bianco in modo che io possa renderti più abbordabili i pesi quotidiani”. (Lo studio, il lavoro, la
politica, l’educazione della propria coscienza, la comprensione e la
partecipazione attiva al contrasto dei bisogni degli altri, la ricerca del
lato positivo e consolante nascosto all’interno di questi stessi problemi). Il rischio mi sembra quello dell’impoverimento dei pensieri,
della caduta nella rete della genericità degli slogan. Rischio che va dalla
rinuncia alla creazione del nuovo (per uno studente è più agevole il copia e
incolla di un tema attraverso l’uso di internet) alla adesione ai modelli più
vacui e al cedimento al sogno dei paradisi artificiali. Tutto ciò, va ripetuto, deve essere letto in senso generale;
senza dimenticare i voli di cui è capace la scienza per effetto dell’impegno
di una folla di studiosi. Camminare lungo questi sentieri significa spesso rinunciare
progressivamente a pezzi di libertà, a illudersi che anche l’amore, il sogno,
la bellezza, le speranze, la stessa ricerca di Infinito possano dipendere
dall’applicazione di un algoritmo personale. E mentre penso al rischio di questo “scivolamento”, non posso non ricordare una sintesi micidiale di Trilussa
intitolata “Nummeri”: Conterò poco,
è vero: -diceva l’Uno
ar Zero- ma tu che
vali? Gnente. Sia nell’azzione come ner pensiero rimani un
coso voto e inconcludente. Io, invece,
se me metto a capofila de cinque
zeri tali e quali a te, lo sai quanto
divento? Centomila. E’ questione
de numeri. A un dipresso è quello che
succede ar dittatore che cresce de
potenza e de valore più so’ li
zeri che je vanno appresso. |
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IL GRIDO DELLA TERRA E IL
GRIDO DEI POVERI di Paolo Bustaffa (*). – 16 novembre 2019 |
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Mai come in questo tempo di incertezza e di disorientamento
globali si è levato con tanta forza il grido dei giovani per il futuro del
pianeta. Un grido che ha infastidito, ha irritato portando alcuni a
rispondere con diffidenza e irrisione. Un uomo anziano, vestito di bianco, non da ora l’ha raccolto. Si
è seduto accanto ai giovani sul
gradino della casa comune minacciata e pericolante. Il 24 maggio 2015 anche a
loro aveva inviato una lettera dal titolo ‘Laudato si’’. Ha denunciato lo sfregio al volto del Pianeta e al volto
dell’Uomo, ha indicato a tutti,credenti e non credenti, la direzione da
prendere per restituire dignità e bellezza ai due volti. Le lacrime della terra e le lacrime dell’uomo0 si mescolano e
insieme chiedono giustizia. Un mare, il Mediterraneo, trasformato in un immenso cimitero, un
a foresta e una cultura, quelle dell’Amazzonia, violentate e devastare,
uomini e donne in fuga (il popolo kurdo massacrato
dall’ennesimo conflitto) sono oggi alcune immagini che esprimono il pianto
cosmico del primo decennio 2000. Ma quelle lacrime esprimono anche la volontà di ribellarsi allo
scempio. Non è impossibile reagire. Un uomo di nome Francesco, si era ribellato e spogliandosi di tutto e
si era messo in cammino in compagnia degli ultimi e degli umili. Camminavano
avvolti nei colori dei paesaggi delle diverse stagioni, insieme hanno
raggiunto la meta della perfetta letizia. Su quelle stesse tracce è oggi l’uomo vestito di bianco che ha
iniziato con il Cantico delle creature la lettera ‘Laudato
si’ sulla cura della casa comune. Un punto importante da cogliere in quel suo messaggio è il
richiamo alla “ecologia integrale”. E’ bene ma non basta preoccuparsi dell’ecologia ambientale
occorre avere a cuore quella economica e quella sociale. Come dire: non solo il colore verde è a rischio di dissolvenza,
tutti gli altri colori lo sono. Bisogna salvarli tutti All’arroganza, alla prepotenza e all’indifferenza si può infatti
rispondere con gesti quotidiani di custodia dei fratelli più fragili, gesti
quotidiani di custodia di “sora nostra madre
Terra”. Si scopre così che “custodia” non significa solo proteggere l’altro
(l’uomo e l’ambiente) in libertà, in dignità in bellezza. Ecco allora che trovano consistenza due indicazioni: la prima
riguarda il cambiamento degli stili di vita. La seconda indicazione invita
alla conoscenza dei problemi e assumere e assumere competenze tecniche,
scientifiche ed economiche per affrontarli. Le piccole cose di tutti i giorni –come la storia insegna-
contribuiscono a sensibilizzare le coscienze mentre l’impegno culturale e
politico va riscoperto come servizio al bene comune che per essere tale deve
includere l’ambiente. Che si inizi questo processo è quanto i giovani chiedono a se
stessi e agli altri, in particolare a quelli che hanno responsabilità
politiche e di governo. (*) Paolo Bustaffa ha scritto questo editoriale per il n. 4/’19 di
“DITUTTICOLORI”, bimestrale del quale è direttore responsabile. “Ditutticolori” è la rivista di Casa Betania
, attiva nel nostro quartiere, ma con l’anima e l’occhio aperti ai problemi
di accoglienza di tutti coloro che per carenze familiari possono trovarsi in
condizioni di bisogno. “Casa Betania” – v. delle Calasanziane, 19,
00167 Roma. |
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UNA SIGNORA di
GP. M. – 09 novembre 2019 |
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Occorre una premessa, anche se la storia personale , il garbo e
il livello morale della persona protagonista sono conosciute da tutti,
compresi coloro che, nell’ombra dell’anonimato informatico, ne fanno
bersaglio quotidiano di insulti. Il Fatto Il 30 ottobre scorso Liliana
Segre – 89 anni, senatrice a vita “per
altissimi meriti” (Costituzione art. 59,2), sopravvissuta agli orrori di
Auschwitz, come testimonia il numero 75190 impresso sul suo braccio di
bambina ebrea – ha proposto l’istituzione di una commissione parlamentare per
studiare e contrastare ogni forma di razzismo, antisemitismo e intolleranza. Il Senato ha approvato ma, contrariamente alle attese, ai 151
voti favorevoli hanno fatto da contraltare 89 astensioni. Inoltre,
accentuazione davvero riprovevole, le stesse persone astenutesi – cioè i
rappresentanti di Lega, Forza Nuova e Alleanza nazionale – sono rimaste
ostentatamente sedute nei propri scranni mentre l’aula tributava in piedi
un’ovazione alla Senatrice. La Signora Segre ha reagito con serena
compostezza “anche se si aspettava accoglienza, solidarietà, umanità, etica,
un consenso ecumenico senza steccati; invece ha trovato indifferenza al suo
desiderio di giustizia”. Sono parole che il figlio ha scritto nella lettere
indirizzata al Corriere della Sera, premettendo alcune sue valutazioni di
natura politica e alcune frasi di dura condanna, concluse con le parole: “A
voi dico: io credo che non vi meritiate Liliana Segre!”. Davvero un fatto triste, che ha visto protagonisti anche coloro
che in un 27 gennaio non lontano (giornata della memoria delle vittime della
shoah), tra le baracche di Auschwitz, in veste ufficiale di esponenti del
Governo Italiano, avevano sillabato parole di condanna dell’antisemismo e di partecipazione al dolore infinito
evocato dai lager, parole rivelatesi oggi di sola bugiarda circostanza. E tutto questo in un momento in cui, con la voce silenziosa della
coscienza e con quella gridata della verità storica, bisognerebbe evitare le
pesantezze verbali tipiche del tornaconto del proprio piccolo orto di
famiglia o di partito e spiegare-dimostrare, soprattutto ai giovani, che la
vita è lotta, è confronto ma non sopraffazione, è cultura del bene comune e
non costruzione del sospetto. E tutto questo in un momento in cui gli ultimi preziosi testimoni
dei principali eventi del secolo scorso hanno bisogno della scorta armata dei
carabinieri per poter raccontare e documentare – come fa Liliana Segre ai bambini e ragazzi delle scuole – il valore della
memoria e della speranza. |
Parrocchia San Filippo Neri alla Pineta
Sacchetti - Via Martino V° 28 - 00167 Roma - Tel.
06/66000409